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Il Giudice di Pace di Napoli con sentenza dello scorso 23 marzo, ha statuito che il tentativo obbligatorio di conciliazione ex lege 28/10 non si applica ai giudizi instaurati innanzi al Giudice di Pace.

La motivazione? Il d.lgs 28/10 non avrebbe previsto alcuna abrogazione delle norme del codice di procedura civile e, in particolare, degli artt. 320 e 322 cpc che prevedono rispettivamente la conciliazione in sede contenziosa e in sede non contenziosa.

Una diversa interpretazione, continua il giudice, non solo sarebbe in contrasto con il delineato quadro sistemico ma si rileverebbe manifestamente illogica. Ed invero l’intento deflattivo che si è proposto il legislatore è stato assecondato proprio dall’istituto del giudice di pace che è nato (nomen omen) con lo scopo di favorire la conciliazione delle controversie che può avvenire nella fase giudiziale ex art. 320 cpc ovvero in quella stragiudiziale ex art. 322 cpc. E pertanto sarebbe paradossale escludere dal processo conciliativo un istituto che è nato precipuamente per lo svolgimento di tale finalità.

Definita “non corretta” dal Ministero di Giustizia, la sentenza, a parere di chi scrive, presenta un vizio di fondo poiché, dinanzi ad una eccezione sollevata dalla parte, il Giudice avrebbe dovuto, riaffermando l’obbligatorietà della mediazione, assegnare i termini e invitare le parti ad adire un Organismo accreditato presso il Ministero della Giustizia, anziché procedere oltre nell’esame del merito della questione, così come ha fatto il giudice partenopeo. Ma quel che più che spaventa, è la motivazione addotta al fine di statuire la disapplicazione dell’istituto, l’introduzione del quale è stata definita dai giudici di pace un “colpo di grazia” per la loro categoria.

Orbene, appare fondamentale precisare alcuni concetti.

Il d. lgs. 28/10 contiene il richiamo al Giudice di Pace laddove richiama le materie per le quali occorre passare obbligatoriamente dalla mediazione e, senza eccezioni di sorta, vi sono ricomprese quelle devolute per competenza ai giudici di pace.

Ma v’è di più. Acquisendo solo qualche concetto base sull’istituto della mediazione civile e commerciale così come voluta dal legislatore, è facile comprendere come la stessa non sia e non vada confusa con la transazione che dovrebbe essere facilitata e sollecitata dai giudici. La transazione, infatti, è il contratto con il quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro (art. 1965 c. 1 cod. civ.), laddove, per definizione, la mediazione è l’attività svolta da un terzo imparziale finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa.

La mediazione si distingue quindi dalla transazione per la natura, perché non è un contratto; per l’oggetto, che non è una lite, ma uno stato di conflittualità; per le modalità, in quanto non è finalizzata a reciproche concessioni ma ad un reciproco riconoscimento di diritti e di doveri. Etimologicamente transazione deriva dal latino transigere, che significa “spingere oltre”, invece la mediazione dal latino mediare, “essere a metà”. E’ vero che in entrambe il risultato deve essere condiviso dalle parti, ma i due mezzi differiscono tra loro per la professionalità dell’operatore e per lo scopo poiché la prima mira all’accordo, la seconda alla rielaborazione della comunicazione. Ontologicamente il mediatore non mira alla soluzione di conflitti ma a ridurne gli effetti e tenta la ripresa del dialogo tra le parti che partono da una posizione di ostilità.

Spero che la vera preoccupazione sia quella di lavorare per e in un sistema giustizia efficiente. E se così è, la mediazione, in questo contesto, si pone come strumento di per sé utile a consentire agli operatori della Giustizia il perseguimento dell’obiettivo efficienza.

Coordinatrice Regionale ANPAR PUGLIA

Marisa Cataldo