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Pubblichiamo un interessante articolo del collega Ettore Vita

La saggezza popolare ha coniato molti proverbi sulla conciliazione delle dispute. Tutti consigliano di perseguire sempre la conciliazione piuttosto che intestardirsi in una faticosa e dannosa lotta giudiziaria per aver ragione dell’avversario. Meglio un cattivo accordo che una buona sentenza, ritenevano i nostri avi.

Il consiglio vale ancora di più oggi in un contesto di paralisi del sistema giudiziario, dove per avere giustizia si deve attendere per un numero imprevedibile di anni una sentenza che arriva quasi sempre fuori tempo massimo per tutelare i nostri diritti.

Tuttavia percorrere la strada della conciliazione solo per i ritardi della giustizia sarebbe riduttivo. In realtà vi sono motivazioni più profonde ed assorbenti che ci devono indurre a rivolgerci ad un Organismo di mediazione e conciliare la lite. Sono ragioni politiche, sociali ed economiche ed attengono alla sfera dei rapporti con l’altro.

Questi rapporti oggi più di ieri sono sollecitati e messi in discussione, diventano fonte di conflitto in una società ad elevato livello di complessità, in un contesto globalizzato caratterizzato da diversità culturali ed economiche con contraddizioni crescenti.

A questa dinamica turbolenza dei rapporti si aggiunge la difficoltà a comunicare in modo efficace e costruttivo.

La famiglia, il condominio, il luogo di lavoro, la strada, le relazioni con gli altri sono occasione di incomprensione e conflitto. L’altro innesca il morso della gelosia, fa paura, mette in discussione le nostre conoscenze, i nostri diritti. E noi stiamo sempre più a difesa dei nostri confini. La nebbia mentale e i filtri comunicativi incidono selettivamente sulla comunicazione, gli schemi mentali con i quali decodifichiamo i messaggi ne alterano il contenuto, le transazioni si interrompono innescando il conflitto.

Spesso le incomprensioni, i contrasti, i diversi bisogni invece di incontrare possibilità di evoluzione, degenerano in frustrazione e rabbia, dando luogo anche a violente esplosioni di collera, di fronte alle quali risulta impossibile distinguere le cause dagli effetti, i diritti dai reali bisogni.

Il conflitto non ha in sé solo un potenziale distruttivo, ma svolge anche una naturale funzione di segnale, come il dolore. Ci informa di un disagio, ci dice che siamo in pericolo, che occorrono dei cambiamenti. Come tale il conflitto ha anche una valenza positiva, può essere l’occasione per ricostruire o per modificare i rapporti con gli altri e perfino con se stessi, se affrontato secondo modalità costruttive.

Purtroppo in un numero esorbitante di casi non troviamo di meglio che rivolgerci ad un avvocato che si prende cura del nostro IO bambino e, ergendosi a paladino del nostro orgoglio ferito, ci conduce in giudizio per avere giustizia.

E’ come cadere in un abisso ove col tempo si sprofonda sempre più, mentre il conflitto si alimenta e si amplia nell’espletamento dei tanti adempimenti processuali, anche grazie alle inefficienze del sistema. In questo contesto quasi mai emergono gli aspetti profondi della contesa e le decisioni sono subite come ulteriore torto.

Quando, dopo tanta lotta nelle aule dei Tribunali, riusciamo ad ottenere un provvedimento lo stesso in molti casi non riesce a soddisfare le nostre aspettative e i nostri interessi, perché si rivela poco utile:

alla conservazione dei rapporti tra le parti e ciò, in alcune situazioni, è estremamente dannoso (rapporti cliente fornitore; rapporti familiari; rapporti condominiali);
perché il giudicato viene calato dall’alto e spesso non è pienamente condiviso nemmeno dalla parte vittoriosa (il giudicato accoglie solo parzialmente le nostre richieste; il dispositivo si fonda solo su motivazioni formali);
perché interviene dopo tanto tempo, quando le situazioni soggettive ed oggettive sono mutate;
perché i costi si rivelano esorbitanti rispetto all’obiettivo e alle previsioni;
perché si vince una battaglia ma si perde la guerra o si vince a caro prezzo.
Durante la mediazione, invece, alla presenza di un terzo neutrale che favorisce la circolazione del flusso comunicativo, le parti hanno la possibilità di superare l’occasionale motivo del contendere, di capire le ragioni dell’altro e di giungere, attraverso il reciproco riconoscimento, alla formazione di accordi vantaggiosi per tutte le parti.

Con la mediazione il conflitto non viene compresso o rifiutato (la conciliazione non si fonda sul buonismo), ma riconosciuto e assecondato, per poterne contenere gli aspetti distruttivi e valorizzare quelli positivi. Il mediatore aiuta a ristabilire la comunicazione tra le parti per elaborare insieme emozioni e sentimenti che, radicalizzandosi, hanno dato luogo a contrapposizioni e rigidità.

In questo contesto le transazioni comunicative evolvono dall’IO Bambino all’IO Adulto in un rapporto razionale tra pari dove ad un IO OK corrisponde un TU OK.

Questa funzione di reciproco riconoscimento, consente di conciliare la disputa e di salvaguardare e consolidare un rapporto che spesso ha una valenza ben superiore all’oggetto della disputa.

La funzione positiva dell’istituto della mediazione esplica i suoi effetti positivi innanzitutto per le dispute che nascono all’interno della famiglia, dove i sentimenti di stima e di amore si trasformano in risentimento ed odio.

Portare un congiunto in Giudizio, infatti, significa compromettere il rapporto in modo irreparabile spesso per sempre. Anche se si ottiene un giudizio positivo permane un senso di sfiducia e di frustrazione non risarcibili.

Di contro il rivolgersi ad un Organismo di mediazione, specialmente se avviene di comune accordo, può essere l’occasione per un confronto franco e costruttivo che elimina la causa dello scontro.

I rapporti di condominio e di buon vicinato soggiacciono alle medesime dinamiche in quanto anche tra i condomini la salvaguardia del rapporto deve avere il sopravvento sull’oggetto della lite.

Il contenzioso giudiziario e una difesa che mira solo alla sconfitta dell’altro mal si conciliano con la necessità di non guastare l’habitat dove le parti vivono, di non esasperare un rapporto già in crisi. In questi casi la vittoria giudiziaria può essere un’amara consolazione e rendere difficile i rapporti quotidiani tra persone che sono condannate a cooperare nel ristretto spazio condominiale e rendono difficile la conduzione di tutto il condominio.

Anche all’interno dei gruppi di lavoro i contrasti incidono negativamente sulla serenità delle persone coinvolte e dei membri del gruppo di lavoro. Il gruppo poi funge da centro di contaminazione per la diffusione del virus del contrasto e del risentimento in tutto l’ambiente di lavoro fino a minare la produttività dell’Azienda.

Poiché le persone passano sul posto di lavoro una buona parte della giornata, l’atmosfera che vi regna può influenzare l’esistenza di ciascuno, dal rapporto con se stessi al rapporto con i familiari e a quelli interpersonali.

Quando nasce un conflitto, il ricorso all’autorità giudiziaria finisce per accentuare i contrasti ed esasperare i rapporti sia verticali che trasversali. In questo clima disturbato diventa difficile lavorare.

Di contro la mediazione, per le sue intrinseche caratteristiche, è una risorsa spendibile nel governare i conflitti che si propongono nell’ambito lavorativo. Consente alle parti in conflitto di raggiungere una comunicazione efficace ed un pieno riconoscimento reciproco, presupposto indispensabile per l’autonoma adozione di soluzioni condivise.

In aggiunta ai conflitti insorti nella famiglia, nel luogo di lavoro o nel condominio, vi sono innumerevoli casi nel quali la strada della mediazione è una opzione economicamente e politicamente più favorevole rispetto al contenzioso.

Si pensi ai conflitti tra gli Stati, ai conflitti tra aziende, tra cliente e fornitore, nella gestione dei capitolati di appalto. Tutti questi conflitti raramente possono essere gestiti nell’ambito di un ristretto tecnicismo se non con ricadute negative sui rapporti sottostanti e costi elevati. Nemmeno i tempi lunghi del contenzioso sono compatibili con le caratteristiche dell’attività dei soggetti e le esigenze prioritarie dei rapporti in campo che richiedono soluzioni rapide e condivise.

Per tutti questi motivi la strada della conciliazione conviene e deve essere percorsa con apertura mentale e la consapevolezza che un accordo raggiunto in tempi brevi può ristabilire le condizione per proseguire serenamente i rapporti o quantomeno per evitare spese e tensioni emotive.

Un’ulteriore riflessione va fatta sui conflitti generati da una cattiva comunicazione e che hanno alla base più che il contenuto della comunicazione la relazione, la veste del messaggio. Una genesi trasversale alle diverse tipologie di conflitto.

Secondo Watlawick, il padre della PNL (programmazione neurolinguistica) nella comunicazione tra due o più persone vi è non solo uno scambio di contenuti ed informazioni, ma viene anche determinato il tipo di relazione che sussiste tra le persone. Ogni transazione ha un aspetto di contenuto e uno di relazione e il secondo classifica il primo perché ne suggerisce il tipo di decodifica. La stessa frase acquista un significato diverso a seconda del tono della voce, dell’espressione del volto. Diverso è il porgere con grazia dal buttare un oggetto a qualcuno.

Molti dei conflitti nella comunicazione nascono proprio perché i due interlocutori non riescono ad impostare una condivisa e chiara relazione comunicativa.

Spesso si crede di scontrarsi per questioni di contenuto, in realtà il conflitto verte sulla relazione e quindi è necessario intervenire sulla relazione per ridefinirla e non accapigliarsi sul contenuto del messaggio.

Nel processo comunicativo nascono incomprensioni e ogni parte cerca di dare un significato e un ordine a quanto è accaduto, giocando tra causa ed effetto. Questo modo di organizzare le sequenze comunicative viene definito da Watlawick “punteggiatura”.

Quando vi è un conflitto, vi è sicuramente un diverso modo di punteggiare una sequenza comunicativa ed ognuno ritiene che la propria sia quella giusta.

Per la soluzione del conflitto è controproducente arrovellarsi nell’analisi delle sequenze in termini di causa effetto, si finirebbe per esasperare i rapporti. E’ invece più produttivo tentare di spezzare la sequenza in modo da instaurare un processo circolare di tipo diverso e più soddisfacente per entrambi.

Alla luce di queste considerazioni, quando il conflitto nasce da un difetto di comunicazione ed attiene alla relazione, spogliarsene, affidando la soluzione ad un Giudice terzo tramite un avvocato, porta a focalizzare l’attenzione su un quid, sull’effetto del conflitto più che sulla sua causa che risiede nella relazione perturbata, in un errore di punteggiatura che ci porta spesso a ribaltare le sequenze comunicative e confondere l’effetto con la causa.

In questi casi non solo conviene ma è necessario rivolgersi alla Mediazione per riattivare un sano circolare processo di comunicazione e ricucire la relazione strappata.

La mediazione conviene, anzi a volte è necessaria.