di Giovanni Pecoraro
In allegato la sentenza che pubblichiamo nella sua integrale stesusa.
(Pres. Sirena – Rel. Rago)
Fatto
p.1. Con sentenza del 5/06/2009, la Corte di Appello di Napoli confermava la sentenza pronunciata in data 18/06/2007 con la quale il Tribunale della medesima città aveva ritenuto A.G. responsabile dei reati di cui agli artt. 640 e 61 n. 11 – 485 – 380 c.p..
p.2. Avverso la suddetta sentenza, l’imputato, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione deducendo i seguenti motivi:
p.2.1. Violazione dell’art. 157 c.p. per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto di far decorrere la prescrizione non dal momento in cui l’imputato aveva conseguito il profitto (ossia all’inizio degli anni novanta) ma dal momento in cui le parti offese, scoperta la truffa, lo avevano querelato (ossia in data 1/06/2004);
p.2.2. violazione dell’art. 485 c.p. per avere la Corte territoriale attribuito i crismi di scrittura privata ad un documento sfornito di tale qualità in quanto il suddetto documento non conteneva una manifestazione di volontà o l’attestazione della verità di uno o più fatti, non era conosciuto l’autore e non era fornito di attitudine probatoria, contenendo solo un invito a ritirare non meglio specificati mandati di pagamento.
p.2.3. Violazione dell’art. 380 c.p. per avere la Corte territoriale ritenuto la configurabilità del suddetto reato non rilevando, invece, che, secondo la giurisprudenza maggioritaria, era necessaria l’instaurazione di un procedimento innanzi all’autorità giudiziaria, quale elemento costitutivo: il che non era mai avvenuto. In ogni caso, il reato avrebbe dovuto essere dichiarato prescritto perché la data di effettiva consumazione del reato “non può che coincidere con lo spirare del termine ultimo per instaurare il procedimento innanzi all’A.G., verificatesi certamente oltre dieci anni prima della sentenza impugnata (cinque anni dal collocamento a riposo)”.
Diritto
p.3. Nella sentenza impugnata, il fatto è descritto nei seguenti termini: “le parti civili, operatori tecnici presso l’Ospedale …, agli inizi degli anni novanta, ritenendo di avere svolto mansioni superiori nell’ambito del rapporto di lavoro con l’Ente, si rivolsero all’avv. A. DR per avviare un giudizio civile avente ad oggetto il relativo superiore inquadramento. Detto legale accettava l’incarico e riceveva da ciascuna parte la somma di lire settecentomila quale acconto; le parti sottoscrivevano regolare mandato. Dopo alcuni mesi, l’avvocato D.R. convocava gli indicati clienti e presentava loro l’avv. G..A., dicendo che aveva devoluto a questi l’incarico, provvedendo a girargli gli acconti ricevuti; i clienti firmavano un nuovo mandato. Il rapporto con i clienti si protrasse per circa dieci anni, sino a quando, l’avvocato A., incalzato dai ricorrenti, comunicava loro che era stata emessa la sentenza e che questa era favorevole. Di tale presunta sentenza le parti non avevano per lungo tempo notizia malgrado le continue e pressanti richieste. A seguito di ulteriori pressioni dei clienti, l’avvocato A. si indusse ad andare con loro in Pretura dove, a suo dire, il giudice avrebbe dovuto emettere l’ordine alla ASL di pagare. L’avvocato non fece entrare le parti e poco dopo uscì sventolando un foglio sul quale asseriva esservi l’ordine di pagamento. Ormai insospettiti, i clienti chiedevano di partecipare con insistenza personalmente alle successive attività necessarie alla riscossione, ma invano, perché con vari stratagemmi e scuse (una bomba nel Tribunale; impedimenti per motivi di salute etc.) il legale si sottraeva sempre agli appuntamenti. Per alleggerire la pressione, essendo ormai trascorsi molti anni, il legale offriva a ciascuno un acconto di L. 3.500.000 ciascuno a condizione che gli avessero firmato una carta. I clienti rifiutavano la proposta. Ulteriori espedienti il legale poneva in essere per tacitare i propri clienti fissando un appuntamento presso l’Istituto bancario ove, a suo dire, avrebbero potuto riscuotere i mandati, sennonché ancora una volta, l’appuntamento fu disdetto per un presunto contrattempo. Però la parte lesa V. si informò dal direttore di banca ed apprese che non vi era alcun mandato di pagamento. Le richieste da parte dei clienti diventavano sempre più pressanti per vedere la sentenza. Vi furono altri appuntamenti andati a vuoto o scuse come l’assenza della segretaria, fino a quando il legale esibì un fax presuntivamente proveniente dal San Paolo Imi con il quale si comunicava che le somme erano state messe in pagamento il successivo 14 aprile 2004. Le parti lese pretesero che l’avvocato li accompagnasse presso il Banco di Napoli sito nel Tribunale a Castecapuano e, questa volta, mentre erano in fila, il legale confessava che non vi era alcun mandato, che non vi era stato alcun giudizio e che anche il fax era fasullo”.
La querela venne sporta in data 1/6/2004.
p.3.1. Ritiene questa Corte che, sulla base dei (pacifici) fatti così come descritti dalla Corte, non sia ravvisabile il reato di truffa per le ragioni di seguito indicate.
La truffa, quanto all’elemento materiale, ruota intorno ai seguenti elementi costitutivi: 1) artifizi o raggiri; 2) ingiusto profitto; 3) altrui danno.
Questi tre elementi, essendo la truffa un reato di natura istantanea normalmente vengono in evidenza contemporaneamente: fanno eccezione alla suddetta regola le ipotesi in cui l’ingiusto profitto venga conseguito in un momento successivo agli artifizi o raggiri (ad es. nel caso in cui gli assegni fraudolentemente carpiti alla vittima del raggiro vengano posti all’incasso in un momento successivo: ex plurimis Cass. 24/01/2002 Riv 226745) o in più momenti (ad es. nell’ipotesi di danno agli istituti previdenziali, nel quale caso si parla di reato a consumazione prolungata o frazionata: ex plurimis Cass. 11026/20% riv 231157).
È incontestabile, però, che gli artifizi o raggiri debbono essere messi in atto dall’agente al momento in cui perpetra la truffa ai danni della vittima proprio perché il suddetto reato è caratterizzato da una ben precisa modalità ossia l’elemento fraudolento (artifizi o raggiri) finalizzato ad indurre in errore la parte lesa, come si desume, letteralmente dall’art. 640/1 c.p. che esordisce stabilendo “chiunque, con artifizi o raggiri inducendo taluno in errore […]”. Il che significa che, ove l’agente si impossessi di un bene altrui senza modalità fraudolente, la truffa non è giuridicamente configurabile, né può assumere rilievo alcuno la circostanza che, in un momento successivo, l’agente faccia ricorso ad artifizi e raggiri finalizzati a coprire la propria precedente illecita condotta.
Infatti, non a caso, la giurisprudenza di questa Corte, in modo assolutamente costante, al fine di differenziare i delitti di peculato e di appropriazione indebita dalla truffa, ha chiarito che si verte nell’ipotesi di truffa quando gli artifizi o raggiri vengono posti in essere al fine di impossessarsi del bene e, quindi, l’impossessamento sia una conseguenza della condotta fraudolenta; al contrario, quando gli artifizi o raggiri vengono posti in essere successivamente, al solo fine di coprire l’illecito già compiuto, allora si verte nelle diverse ipotesi di peculato o appropriazione indebita (ex plurimis: quanto all’appropriazione indebita: Cass. 740/1970 Rv. 117150 – Cass. 1899/1968 Rv. 109801 – Cass. 1330/1966 Rv. 103332; quanto al peculato: Cass. 2384/1973 Rv. 123658 – Cass. 6753/1997 Rv. 211009 – Cass. 3039/1989 Rv. 183538 – Cass. 17320/2006 Rv. 234133 – Cass. 35852/2008 Rv. 241186).
Ora, all’imputato è addebitato il reato di truffa perché: a) incassò a titolo di onorario somme di denaro dai signori […]; b) pose in essere artifizi e raggiri consistiti “nell’avere incontrato più volte gli stessi al fine di informarli in merito allo svolgimento ed all’esito della causa avviata sul loro mandato contro l’ASL Na/X e nell’avergli fatto credere di avere effettivamente avviato e curato detto procedimento, al quale egli non aveva mai dato corso”.
Dunque, secondo l’ipotesi accusatoria, l’ingiusto profitto consistette nell’avere incassato gli acconti per iniziare la causa che mai iniziò e gli artifizi e raggiri consistettero nell’aver tenuto una condotta diretta a tranquillizzare i clienti che chiedevano conto dell’esito della causa. Sennonché, applicando gli enunciati principi di diritto alla concreta fattispecie, è del tutto evidente che: a) nessuna condotta fraudolenta venne posta in essere dall’imputato nel momento in cui i clienti gli conferirono il mandato professionale e gli pagarono un acconto: sul punto il capo d’imputazione nulla dice e la stessa Corte tace non evidenziando alcunché; b) la condotta fraudolenta venne posta in essere in un momento successivo e cioè quando i clienti cominciarono a chiedere conto dell’esito della causa. Fu allora, infatti, che l’imputato, per coprire la grave colpa professionale in cui era incorso, cominciò a porre in essere artifizi e raggiri finalizzati a tranquillizzare i clienti ed a sviarli, cercando così di rinviare l’inevitabile redde rationem. Ma, è del tutto evidente che, poiché quella condotta fraudolenta venne posta in essere non nel momento iniziale e cioè per carpire il mandato professionale e gli acconti (l’ingiusto profitto con altrui danno), ma in un momento successivo e fu finalizzata al solo scopo di celare ai clienti il danno che era stato loro provocato dalla negligente condotta (non avere iniziato la causa per la quale era stato conferito il mandato professionale), non è ipotizzabile la truffa. Ciò è tanto vero che, come risulta dalla descrizione del fatto riportato nella sentenza impugnata, l’imputato, pur di chiudere la questione offrì a ciascuna delle parti lese la somma di L. 3.500.000. In altri conclusivi termini, la vicenda non ha alcun risvolto penalistico ma va ritenuta solo come un episodio di inadempimento contrattuale del quale l’imputato non può che rispondere solo in sede civilistica. Pertanto, la sentenza, in ordine al suddetto reato, va annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste.
p.4. Quanto al reato di cui all’art. 380 c.p., la Corte territoriale ha ritenuto di seguire quella parte – minoritaria e risalente – della giurisprudenza secondo la quale non occorre, per la configurabilità del suddetto reato, la pendenza di una causa: “presupposto del reato di infedele patrocinio (art.380, comma 1, c.p.) è l’esercizio della difesa, rappresentanza ed assistenza davanti all’autorità giudiziaria, intese come oggetto del rapporto di partecipazione professionale e non come estrinsecazione effettiva di attività processuale, per cui ad integrare l’elemento oggettivo del delitto è sufficiente che l’esercente la professione forense si renda infedele ai doveri connessi alla accettazione dell’incarico di difendere taluno dinanzi all’autorità giudiziaria, indipendentemente dall’attuale svolgimento di un’attività processuale e finanche dalla pendenza della lite, giacché il pregiudizio in danno della parte può concretarsi nella dolosa astensione dalla doverosa attività processuale”: Cass. 856/2004 Rv. 230877.
Questa Corte, invece, in considerazione del tenore testuale della citata norma che individua la condotta materiale punibile nei casi in cui il patrocinatore arreca nocumento “agli interessi della parte da lui difesa, assistita o rappresentata dinanzi all’Autorità Giudiziaria […]”, ritiene di adeguarsi alla giurisprudenza maggioritaria, secondo la quale “per la sussistenza del reato di patrocinio infedele è necessaria, quale elemento costitutivo del reato, la pendenza di un procedimento nell’ambito del quale deve realizzarsi la violazione degli obblighi assunti con il mandato, anche se la condotta non deve necessariamente estrinsecarsi in atti o comportamenti processuali”: Cass. 21160/2009 Rv. 244182 – Cass. 41370/2006 Rv. 235548 – Cass. 6382/2008 Rv. 239436. Di conseguenza, anche per tale capo, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste.
p.5. Infondata, invece, deve ritenersi la censura in ordine al reato di cui all’art. 485 c.p. perché, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte “ai fini della sussistenza del delitto di cui all’art. 485 c.p., nella nozione di scrittura privata devono essere ricompresi non solo quegli atti che contengono dichiarazioni o manifestazioni di volontà idonee a costituire ovvero modificare diritti e posizioni oggettive, ma altresì tutte le scritture formate dal privato che si riferiscono a situazioni da cui possono derivare effetti giuridicamente rilevanti per un determinato soggetto”: Cass. 42578/2009 Rv. 244851. E, non vi è dubbio che il documento formato falsamente dall’imputato e consegnato ad una delle parti, contenente un preteso ordine di pagamento a loro favore, integri la fattispecie di cui all’art. 485 c.p. proprio perché quella scrittura si riferiva ad una situazione (mandato di pagamento) da cui poteva derivare un effetto giuridicamente rilevante per le parti.
p.6. In conclusione, essendo addebitarle all’imputato il solo reato di cui all’art. 485 c.p., gli atti vanno trasmessi ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli per la relativa determinazione della pena.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata in ordine ai reati di cui agli artt. 640 e 380 c.p. perché i fatti non sussistono rigetta nel resto e dispone trasmettersi gli atti ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli per la determinazione della pena in ordine al residuo reato di falsità in scrittura privata.